©ralbertalli. Testo non finito per Illustrazione Ticinese in seguito a decisione presa di non pubblicare il servizio fotografico del mio soggiorno in Kosovo. 2005
L’aereo che mi stava portando da Basilea a Dacovica era pieno di soldati svizzeri nella famigliare uniforme da combattimento, e se non fosse stato per il simbolo della KFOR, con la sigla doppia: (una volta in cirillico) su sfondo blu e bianco, avrei potuto credere di essere a un corso di ripetizione. L’atmosfera era distesa e i ragazzi davano un impressione simpatica. E l’unico a non esser riuscito ad addormentarsi dopo un po’, nonostante fosse partito da casa alle 2 del mattino, ero io. Cavoli: stavo andando in Kosovo! Solo il suono del nome evoca tutto un immaginario alimentato da anni di informazioni e documenti d’orrore. Ripensavo ai grandi reporter che ammiro e alle loro immagini indelebili scattate ormai dieci anni fa. Ripensavo a tutto quello che mi raccontava al bancone del bar il mio amico Ivan, che era stato soldato della Swisscoy nel decimo contingente, proprio quando sono scoppiati gli ultimi grossi problemi a marzo dell’anno scorso. Studiavo la cartina che mi aveva disegnato sul blocchetto “da cameriera”, suddivisa in “task forces” e etnie. Sapevo che la situazione è stabile, anche se la pace è imposta militarmente. Che il peggio erano le mine.
Ero stato in alcuni paesi dell’ex-Yugoslavia (Bosnia, Serbia,…) l’estate prima e, nonostante mi sia soffermato solo all’apparenza delle cose, lo scenario che mi si sarebbe presentato, di case rase al suolo, cimiteri che si perdono a vista d’occhio e buchi di proiettili ovunque, avrebbe dovuto apparirmi in modo un po’ meno destabilizzante… Il che speravo mi avrebbe permesso di andare al di là di quel che resta delle facciate per impregnarmi un po’ più di ciò che mi interessa veramente: l’essere umano. Ma non mi facevo illusioni: avrei passato sei giorni da turista, da solo, nell’attesa che i militari svizzeri mi recuperassero per permettermi di realizzare il reportage sui soldati ticinesi, nei quattro restanti giorni previsti. Ma ero comunque in viaggio per fare il fotoreporter, probabilmente per la prima volta per davvero: con un mandato professionale. E ne andavo intimamente molto fiero.
All’atterraggio, una volta aperto il portellone il paesaggio che mi si è presentato era inatteso e nuovo per me. C’erano veicoli militari ovunque, filo spinato ad ogni angolo e imponenti elicotteri da guerra che ci sorvolavano da ogni direzione, in ogni momento,con un frastuono assordante. Ma i ragazzi in divisa fumavano le loro sigarette. Chi tornava dal congedo salutava con qualche battuta quelli che stavano per volare a casa. E io mi chiedevo dove diavolo ero finito.
Una volta saliti sul bus che ci avrebbe portati al camp degli svizzeri, lasciato alle spalle un imponente check-point di soldati italiani, armati, davanti ad un enorme cartello “Benvenuti: Aeronautica Militare Italiana”, mi è venuto il vago dubbio che forse, ma solo forse, quello scenario da film “Apocalypse Now” era abbastanza normale… per un aeroporto militare.
Guardando dalle finestre, sulla strada per Suvareka il paese mi dava un impressione arida e desolata, ma una cosa che subito mi ha colpito erano le villette monofamigliari in mattonelle rosse che parevano spuntare a caso, come funghi. Sembra che il paese avesse reagito prontamente e, una volta la pace imposta dalle nazioni unite, avesse badato alla ricostruzione immediata delle abitazioni distrutte. A parte il continuo sfilare di convogli militari la situazione mi sembrava pacifica.
Dal camp “Casablanca” dove convivono Austriaci, Tedeschi e Svizzeri sono stato accompagnato dalla P.I.O (Public Information Officer, ovvero: addetto stampa) della Swisscoy al mio albergo a Suvareka. Per accertarsi che tutto vada bene la giovane ragazza dai capelli biondi raccolti in una treccia, in uniforme da combattimento con pistola alla gamba, mi ha accompagnato in stanza e poco prima di congedarsi, guardandomi coi suoi occhi azzurri mi ha confessato candidamente che lei non è sicura che passerebbe sei giorni completamente sola da queste parti, che la mia scelta è ammirevole, ma di ricordarsi che in nessun caso l’esercito è responsabile per me nei giorni antecedenti l’incontro prefissato e che in caso di bisogno io non sarei stato una delle loro priorità. Mi ha comunque lasciato il suo biglietto da visita plastificato, prima di raggiungere il soldato con fucile che attendeva nella jeep all’entrata. Rassicurante.
Il mattino dopo avevo preso la decisione di percorrere la strada principale della cittadina con la macchina fotografica alla spalla, per sentire che aria tira. I negozianti stavano pulendo le scalinate davanti alle loro entrate e al mio passaggio si fermavano alzando la testa e mi guardavano con quello che mi sembrava uno sguardo ostile. Magari scambiavano due parole col vicino e ricominciavano a lavorare. Ricordo essermi detto che non sarei durato a lungo, ma poi accennando un saluto con la testa e sforzando un sorriso ho avuto in ritorno grandi sorrisi cordiali, e i visi che sembravano cosi duri si accendevano di una luce simpatica. “Mrdita” rispondevano. Buongiorno dunque si dice “merdita”! E con un associazione mentale non delle più fini me ne andavo in giro trattando tutti di quello che mi sembrava un insulto spagnolo. Ma funzionava alla grande.
A mezzogiorno mi sono fermato a comprare un hamburger e una Coca Cola (da buon “anti tutto ciò”) alla fermata dei bus. Mentre stavo contemplando un autopostale giallo, dalle insegne PTT e l’autocollante “CH”, che portava i suoi passeggeri a Pristina,sono stato interpellato dal venditore con un “what are you doing in Kosovo?” che suonava come un dolce messaggio di salvezza.
Ed eccomi a discorrere con la persona di cui avevo bisogno. Durante la guerra portava giornalisti nei punti caldi per 60 dollari all’ora. Ha visto tutto quello che non avrebbe voluto. Può spiegarmi in lungo e in largo tutto dei Serbi che vogliono eliminare gli Albanesi del Kosovo dal paese che tutti considerano di diritto loro. Della resistenza dei partigiani dell’UCK e dell’arrivo delle Nazioni unite. Della violenza reale che non è quella che ho letto sulle guide turistiche ma quella che è palpabile nello sguardo di quest’uomo e tutti quelli che incontrerò in questo viaggio. “You are from Switzerlan, eh?” Si ricorda di un capodanno passato a Losanna. Si ricorda dei volontari sul ponte de Bessières che impedivano a chi volesse di suicidarsi. Lui avrebbe aiutato, in caso di dubbio, a buttarsi, gridava. E’ inconcepibile per uno che sopravvive alla guerra vedere gente ridotta alla solitudine come conseguenza di una scala di valori sfalsata in nome della riuscita economica, tanto da voler togliersi la vita. Silenzio.
Mi consiglia di viaggiare. Il paese è quattro volte più piccolo della svizzera e con qualche euro i bus ti portano per lunghe distanze.
Di gente dal cuore buono come lui ne incontrerò in ogni bar, in ogni bus e ad ogni baracchino di cibo. Ho avuto la fortuna di ubriacarmi nella ridente Prizren con un ex combattente dell’UCK, artista e scultore, che si offendeva se volevo pagar da bere. Di attraversare per la prima volta il ponte di Mitrovica che “separa” la Serbia dal Kosovo con un ex prigioniero di guerra nelle terribili prigioni Serbe. Di discutere ore con operai partiti in Italia, in Svizzera o Germania, di finire con loro in discoteche parlando liberamente dell’immagine dei Kosovari all’estero, della loro natura fiera, imprevedibile e della loro predisposizione alla violenza nonostante una bontà di cuore indiscussa. Sono stato seduto in un ufficio con la faccia di Bill Clinton incorniciata al muro, tutto un pomeriggio ad ascoltare la lista quotidiana delle atrocità avvenute durante la guerra nella sola città di Suvareka, mentre tre uomini adulti dai visi scavati dalle rughe erano in lacrime nonostante la posa fiera e impassibile. Ho giocato a scacchi coi vecchietti in bar freddi e fumosi, che continuano anche quando per l’ennesima volta va via la corrente e qualcuno deve uscire a lume di candela per accendere un generatore a nafta. Non mi sono sentito in pericolo una volta sola. Ho sempre trovato persone generose che non avrebbero lasciato che avessi un minimo problema. Disposte a capire la mia ignoranza e a spiegarmi in lungo e in largo i problemi etnici legati al passato e l’odio del presente. A mostrarmi i luoghi, le cicatrici e raccontarmi le loro storie. Contenti che qualcuno si interessasse in qualche modo ancora alla loro condizione, dimenticata dalla ribalta dell’attualità… da un opinione pubblica occupata dall’ennesima ingiusta violenza che non lascerà nient’altro che massi di pietra incenerita e vite riempite solo di dolore e odio. In nome di una causa etnica religiosa pilotata, senza che ci sorprenda più, da interessi puramente economici. Ma quel che resterà dell’attualità di oggi sarà un’altra terra devastata e dimenticata di cui nessuno vorrà più ricordarsi.
Si preferisce commemorare il passato remoto, ripromettendosi che non succederà più, senza ammettersi che più recentemente è riaccaduto l’impensabile. E questo proprio vicino a casa nostra.
Dopo che altre immagini hanno invaso i nostri schermi, non sembra più necessario chiedersi in condizioni versano questi luoghi. Eppure la Svizzera che otre alla decisione presa, proprio durante questo mio soggiorno, di andare in Indonesia, non ha moltissime missioni all’estero di rilievo paragonabile, dovrebbe voler sapere perché c’è ancora bisogno di una tale presenza militare.
Una volta recuperato dalla P.I.O in albergo e presentato al contingente ero passato un po’ dall’altra parte della barriera. Adesso non sarei più stato in strada a veder passar veicoli verde oliva che sembravano venire da un altro pianeta, ma avrei percorso le stesse strade parlando qualche lingua nazionale e ascoltando DRS “drü” a bordo dello stesso Puch che ci portava in giro a scuola reclute.
Il mondo esterno ridiventava distante per me, e ho capito la fortuna che ho avuto di aver potuto prendere delle “vacanze” e visitare almeno le principali città da turista curioso.
Il mio programma giornalistico giornaliero era fitto e cadenzato in maniera precisa. Incontri, interviste, accompagnare sul lavoro, visita hot spots, volo in elicottero… Bello.
(scritto mai terminato)
CHE VOGLIA DI PARTIRE!!!
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